La storia

La storia



Dalle origini al XVIII secolo

L'utilizzo della materia organica per aumentare la fertilità del terreno risale certamente ai primi insediamenti umani stabili ed economicamente organizzati nelle civiltà agricole.

Pitagora e Solone documentarono l'eccellente sviluppo delle colture dell'antico Egitto, purtroppo senza troppi dettagli sulle tecniche agricole e di fertilizzazione utilizzate, ma con grandi accenti sull’importanza dell'inondazione del Nilo, descritta come apportatrice di ottima quantità di sostanze organiche (limo) successivamente fissate al terreno dal pascolo animale.

Già Omero accennava di mucchi di letame usati dagli schiavi per concimare i campi:

Argo [..] ora giaceva là, dimenticato, dacché era partito il padrone,
sul molto letame che davanti alle porte
muli e buoi ammucchiavano, che poi i servi
portavano a concimare il grande terreno di Odisseo;

(Odissea, 17: 291-327)

Nel mondo romano il letame, talora integrato da ceneri e rivoltato più volte con una aggiunta di terra, veniva utilizzato per incrementare la produttività agricola. Autori quali Catone, Plinio e Terenzio, hanno insistito sull'importanza dell'utilizzo del letame compostato nella pratica agricola.

Anche in vaste regioni sudamericane civilizzate da Atzechi e Toltechi veniva usato abitualmente guano allo scopo di fertilizzare il terreno.

Ma l’utilizzo di letami animali o di compostanti organici come fattori determinanti per ridare sostanze ai terreni coltivati, non erano gli unici accorgimenti degli antichi per mantenere il suolo agricolo sano e produttivo.

Gli antichi romani aravano come facciamo ora, ma con una tecnica molto differente: usavano un chiodo.
Il chiodo non portava niente in superficie, non ribaltava il terreno e inoltre l'aratura avveniva a strisce di profondità massima di 6 cm dove si poneva il seme.
I romani inoltre, come era consuetudine in tutto il mondo agricolo, si limitavano a raccogliere le spighe, lasciando al terreno tutto il resto.
Tale lavorazione non disturbava affatto né la vita batterica né l'edaphon ed in questo modo riuscivano ad avere delle rese che, secondo gli scrittori dell'epoca, erano competitive e notevoli 

(tenendo conto dei semi di allora). Ad esempio, citano, nell'Agropontino si ottenevano 2 ton e 400 kg per ettaro di frumento. Ogni anno per 300 anni.

Tutto ciò era basato sul rispetto assoluto della vita che avviene nel terreno e tale comportamento non sembra essere il mero risultato di tecniche antiche e poco evolute, ma anche della coscienza, espressa in uno dei pochi trattati latini di agronomia arrivati fino a noi: il trattato di Lucio Giunio Moderato Columella, autore dei dodici libri De re rustica. In questo trattato il postulato di base su cui Columella si basa è l’assioma della perennità della fertilità, dote inesauribile del suolo purché le pratiche che ne traggono la successione dei raccolti assicurino la restituzione alla terra degli elementi asportati dalle messi.

Ai tre eventi che Columella individua come possibili ragioni di interruzione della fertilità - produzione massiva, cambiamento climatico, cattive scelte agronomiche - risponde con un’unica soluzione per tutti: letame, aratura e alternanza di coltivazione cereali/legumi.

Nel corso dei circa tredici secoli che vanno dalla crisi e dalla caduta dell’Impero romano al XVIII secolo, pur all’interno delle innumerevoli varietà regionali e subregionali che caratterizzarono l’economia rurale della penisola, è possibile individuare una serie di tendenze di fondo, che consentono in qualche misura un discorso unitario.

Per quanto riguarda le produzioni agricole l’Italia medievale evidenzia progressive diversificazioni a partire da un’agricoltura altomedievale che poggiava sulla cerealicoltura destinata quasi esclusivamente a soddisfare il fabbisogno locale. 

Il quadro si evolve progressivamente a partire dall’inizio del secondo millennio. Si introdussero nuove colture o se ne potenziarono alcune quasi del tutto scomparse: dal sorgo al grano saraceno, alle piante introdotte dal mondo bizantino e arabo in Sicilia e nel Mezzogiorno (riso, canna da zucchero, cotone, agrumi). Lo stesso si può dire di una serie di piante tessili (lino e canapa) e tintorie (guado, zafferano) che si svilupparono per effetto della grande crescita della manifattura urbana. A partire dal XIV-XV secolo fece la sua comparsa in alcune aree irrigue della Pianura padana il prato artificiale, volano per lo sviluppo del grande allevamento stallivo, con tutte le conseguenze per l’economia rurale (maggiore produzione di carne, di latte e di formaggi, disponibilità di concime).
Dal XVI secolo sono le piante americane che si pongono come un contrassegno vistoso dell’epoca nuova che si apre con le grandi scoperte geografiche, ma la loro adozione fu lenta, lenta la loro diffusione, anche quella del mais.

Al progressivo arricchimento del ventaglio dei prodotti coltivati, anche grazie all’apertura di nuovi mercati nazionali e internazionali, non seguì una parallela evoluzione delle tecniche di produzione agricola: le innovazioni introdotte a partire dall’XI secolo, su cui si è soffermata da tempo la storiografia internazionale (rotazione triennale, diffusione di un nuovo tipo di giogo per gli animali da lavoro, introduzione dell’aratro pesante), non furono adottate dappertutto, anzi.

Nonostante le interessanti opere di B. Palissy tra il 1553 e il 1563,  quelle di Olivier de Serres con il suo “Théatre de l'Agriculture” e, più tardi, quelle di Camillo Tarello nei suoi “Souvenirs de l'Agriculture” pubblicati nel 1773, le variazioni tecniche sono dovute più a opportunità e strumenti nuovi piuttosto che indirizzi specifici.. 

In molte parti del Mezzogiorno il sistema colturale rimase quello dell’alternanza grano-maggese; il ricorso al debbio come pratica di fertilizzazione della terra si mantenne a lungo. Altrove si sperimentarono cicli colturali più complessi, con l’introduzione nelle rotazioni delle leguminose o dei cereali estivi, e, in alcune aree, del prato artificiale.
In varie parti d’Italia – Sicilia, Sardegna, le aree montagnose del Mezzogiorno – si continuò ad usare l’aratro-chiodo tradizionale. Nelle terre più fertili e pianeggianti del Centro-nord si diffusero aratri provvisti di versoio, coltro e ruote, tirati da coppie di buoi o di cavalli. 

In sostanza, però, solo la rivoluzione industriale introdusse cambiamenti significativi nelle tecniche di coltivazione. Solo con la rivoluzione industriale cambiò radicalmente l’azienda agricola.
Fino al 1800 le tecniche di coltivazione e la ricerca di fertilità perenne continuavano ad evolversi sulla base dei concetti organici, con nuove tecniche e strumenti, ma sempre sulla stessa traccia.



La rivoluzione agronomica dell’800

È il 1840 quando Justus Liebig pubblica Die organische Chemie, in ihrer Unwendung auf Agricultur und Physiologie, il manifesto della nuova agronomia fondata sulla fisiologia vegetale. L’idea chiave del chimico tedesco corrisponde alla concezione della fotosintesi e dell’assimilazione minerale enunciata dal ginevrino Théodore de Saussure nel 1804. 

Se De Saussure aveva affidato le Récherches sur la végétation ad un piccolo editore parigino, incapace di imporle all’attenzione dei dotti, il ventisettenne Liebig è già un astro dei circoli accademici, capace di attrarre sul proprio volume l’attenzione della cultura europea, che tributa al saggio il successo dei best seller

La rivoluzione dell’agronomia ottocentesca si fonda su un concetto oltremodo semplice: le piante, ha scoperto De Saussure, traggono dall’atmosfera, mediante la fotosintesi, la sostanza organica di cui sono formate, i cento composti ternari costituenti rielaborazioni di un gas aereo, l’anidride carbonica, combinato con l’acqua,  dimostrando che esse traggono dal suolo, invece, tutti i componenti minerali, quell’insieme di sali che ne costituiscono le ceneri, primi per importanza i sali nitrici, quelli fosfatici, quelli potassici.

Al ritardo pluridecennale che segna la pubblicazione del manifesto della rivoluzione fisiologica l’agronomia ripara, in Francia, in Germania e in Gran Bretagna, con il più tumultuoso accendersi di studi, dibattiti, polemiche: tra il 1840 e il 1860 l’agronomia conosce, in Europa, gli anni più ferventi della propria storia secolare. Resta estranea alla grande discussione l’Italia, dove i pochi studiosi che hanno percepito la portata della rivoluzione fisiologica non riescono, per mancanza di controparti, ad alimentare alcun dibattito nazionale.

La discussione è una conseguenza della teoria: avendo definito gli elementi necessari al suolo ed avendoli circoscritti nell’ambito chimico diventa automatico pensare, soprattutto nel pieno della rivoluzione industriale, come il tutto possa risolversi con iniezioni esterne di tali elementi. Tale corrente viene denominata dei Mineralisti, a cui si oppongono gli Umisti (o vitalisti) che non negano affatto la fisiologia vegetale, ma ritengono semplicista la soluzione esterna e minerale, continuando ad affermare che l’ottimizzazione e l’evoluzione del ciclo organico, nella sua sinergia armonica tra agricoltura e allevamento, rimane l’unica strada in grado di sviluppare l’azienda agricola.

E’ ovvio che, nonostante l’accesa discussione accademica, solo i mineralisti possono uscirne vincitori: per le forti ragioni economiche collegate, per i risultati immediati e perchè Inghilterra, Francia e Germania partono velocemente, rincorrendosi l’un l’altra e ottenendo ottimi risultati sin da subito e l’immediata adesione dei colleghi nordamericani.

In Italia il consumo di latticini e carni è così basso che anche solo ipotizzare un organismo equilibrato con i prodotti agricoli non è possibile, ecco dunque che la discussione neanche nasce, il mineralismo viene tacitamente accettato e,  seppur con estremo ritardo sul resto d’Europa, applicato massivamente e con successo con il progetto granario di Mussolini.
A determinare quel successo è la fortunata presenza, nelle istituzioni sperimentali del Paese, di due agronomi di levatura eminente, che si impegnano a verificare le potenzialità, nelle condizioni climatiche italiane, di due strumenti precipui di evoluzione della cerealicoltura: la selezione genetica e l’impiego dei fertilizzanti azotati prodotti dall’industria. 

I due ricercatori portano i nomi di Nazareno Strampelli e di Dante Gibertini, il primo padre di frumenti dai nomi guerrieri, Tiriamo diritto, Bruno Mussolini, Ardito, Roma, il secondo architetto della tecnica della concimazione «precoce». Insieme, gli strateghi della rivoluzione.
Anche se proprio di rivoluzione non si può parlare visto che già in Inghilterra e negli Stati Uniti sono decenni che gli agricoltori impiegano frumenti nati dall’incrocio e dalla selezione, e sono ormai più di cinquant’anni che gli agronomi conoscono il potere dell’azoto sui rendimenti del grano. 



la nascita del biologico

Nonostante la vittoria schiacciante dei mineralisti e dei sistemi agricoli oggi chiamati “convenzionali” su cui si concentra la quasi totalità degli investimenti economici e di ricerca, il movimento umista si evolve e si trasforma, anche grazie a nuove scoperte scientifiche. 

Uno dei primi campi scientifici che hanno influenzato le pratiche agricole umiste o biologiche fa riferimento alla cosiddetta “batteriologia agricola” sviluppata tra la fine dell’800 e gli inizi del ’900. In quegli anni, vengono scoperti i batteri azoto-fissatori (Hellriegel e Wilfarth 1888; Beijerinck 1901) e si acquisiscono sempre più conoscenze sugli aspetti della fertilità biologica del suolo, l’importanza della pedo-fauna e della sostanza organica del terreno.
In quel periodo, vengono formalizzate le teorie che identificano nell’uso del letame, nel compostaggio, nella lavorazione ridotta e senza inversione del terreno e nell’uso del sovescio leggero le metodologie per migliorare la fertilità del suolo. 

Tali scoperte lasciano poi spazio a vere e proprie correnti di pensiero: il filone dell'agricoltura biodinamica (Rudolf Steiner, Ehrenfried Pfeiffer), con la sua visione olistica del mondo; la scuola inglese dell'Organic Agriculture (Albert Howard, Robert McCarrison, Eve Balfour), focalizzata sulle interconnessioni tra salute del suolo, salute delle piante e salute degli animali, e che darà poi vita a Soil Association; il gruppo di scienziati esperti di protezione del suolo, sviluppo territoriale e ecologia (Edward H.Faulkner, Louis Bromfield, Aldo Leopold, Hugh H. Bennett), denominato Friends of the Land, formatosi negli Stati Uniti a seguito della crisi delle Dust Bowl.

A questi bisognerebbe anche affiancare l’opera e il pensiero del quasi dimenticato Alfonso Draghetti, che invece ci viene ricordato in uno splendido articolo da Alberto Berton (link ad articolo) che ne rispolvera il lucidissimo pensiero e di cui riportiamo qualche stralcio:

Per "concezione biologica" [...], Draghetti intende la visione dell'azienda agraria come un "corpo" radicato nel terreno geologico fondamentale, che si auto-mantiene e si sviluppa grazie ai flusso di radiazione solare, agli scambi di gas dell'atmosfera, al flusso delle acque, ai minerali del terreno fondamentale, e alle circolazioni interne di materia organica e minerale tra i vari "organi" che compongono l'azienda (terreno fertile, coltivazioni, stalla, concimaia).
L'ideale agrario di Draghetti è quello dell'azienda biologica "intensiva", basata sulla rotazione di cereali e foraggere, l'allevamento di animali erbivori, la presenza della stalla e della concimaia. Tra i vari organismi viventi che compongono questa entità biologica unitaria (microrganismi del suolo, piante cerealicole, piante foraggere leguminose, erbivori) sussistono delle "simbiosi", ovvero delle interazioni biologiche mutuamente benefiche, che, se ben governate dall'uomo agricoltore, permettono la "perennazione" nel tempo dell'azienda agricola e la produzione di merci agricole e zootecniche per il mercato.

Da ricordare inoltre il Prof. Francesco Garofalo (1916-2013), che ha fondato nel 1969 l’Associazione Suolo e Salute a Torino, e Ivo Totti (1914-1992) che sono oggi riconosciuti come i padri della ricerca sull’agricoltura biologica in Italia, il primo in ambito accademico ed il secondo in ambito più operativo ed applicativo.



L’agricoltura moderna e la rinascita del dibattito

Siamo usciti dal secondo conflitto mondiale con gravi insufficienze delle produzioni agricole: ne soffrivano i paesi europei, in cui la guerra aveva disarticolato l’apparato produttivo, i paesi asiatici e africani, in cui il riassetto del quadro geopolitico assicurava l’indipendenza, ma anche un incontenibile aumento dei tassi di crescita demografica e la coincidente mancanza di risorse per lo sviluppo agricolo.

Di fronte alla penuria l’imperativo che ha guidato l’azione degli agronomi operanti a tutte le latitudini è stato l’accrescimento delle produzioni tramite l’impiego di fertilizzanti, antiparassitari e diserbanti di sintesi.
A questo bisogna sommare la rivoluzione scatenata dall’impiego delle nuove meccaniche, la cui potenza ed efficacia permettono la lavorazione massiva in dimensioni sempre maggiori degli appezzamenti, e sempre più in profondità, accentuando permeabilità e diffusione degli agenti chimici.

Alla meccanica sempre più evoluta e all’utilizzo massivo e diffuso degli agenti chimici corrispose ovviamente la riduzione della sostanza organica, dell’attività biologica e il progressivo isterilimento dei suoli; fra i fenomeni gravi si manifestarono evidenti erosioni dei terreni declivi, abbassamento delle falde, scomparsa di varietà locali, appiattimento del paesaggio, esplosione di malattie, desertificazione, ma il notevole accrescimento produttivo risultò idoneo a soddisfare la domanda delle popolazioni.

Di fronte a tale situazione, al tempo stesso esaltante e drammatica, studiosi e cultori di scienze agronomiche allarmati avanzarono teorie di possibili risoluzioni, avvertendo acutamente l’esigenza di approfondire analisi chimiche, biologiche e fisiologiche per individuare composti a basso impatto ambientale, che non arrestassero l’evoluzione tecnologica e il progresso ma ugualmente garantissero e tutelassero il sostentamento alimentare come esigenza primaria nel rispetto della salute e delle risorse presenti in natura.
Nacquero diverse scuole di pensiero, alcune teoriche altre più legate all’esperienza concreta e si profilarono indirizzi contrastanti: chi, consapevole della necessità della chimica per la garanzia del sostegno alimentare, ne sostenne la necessità; chi la rigettò incondizionatamente nel rispetto di un principio ordinatore di naturalità presente in tutte le cose. 

Mentre la posizione dei primi evidenziava una “rivisitazione” in chiave aggiornata delle ideologie propugnate nei secoli dalla scienza agronomica, attualizzata e adeguata alle nuove esigenze sociali, la posizione dei secondi, più “rivoluzionaria” e alternativa, racchiudeva in sé un onere di dimostrazione obiettiva, con il rischio altissimo di restare relegata in una nicchia di improbabilità scientifica.

Tuttavia dal confronto di questi indirizzi è derivata una coscienza più matura del problema in sé, l’imperativo di convertire i criteri di impiego dei mezzi chimici e meccanici e l’urgenza di riorientare le procedure agronomiche secondo le coordinate di una nuova filosofia produttiva. Se quest’ultima recente impostazione trovasse applicazione diffusa, non sembrerebbe azzardato ritenerla la moderna rivoluzione agraria, una rivoluzione che mira ad aumentare le produzioni ma tutela l’integrità delle qualità naturali per lasciare alle generazioni future risorse agrarie ancora vitali capaci di soddisfarne i bisogni.

E’ su questo solco che NEST ha fatto ricerca e sviluppo, cercando di applicare nuove conoscenze e innovative tecnologie ai paradigmi dell’agricoltura biologica, con l’obiettivo di partecipare alla nuova rivoluzione agraria con sistemi, prodotti e meccaniche tese all’ottimizzazione della produzione e insieme alla ricostituzione e mantenimento delle risorse naturali.